di Andrea Monti – PC Professionale n. 194
Un’ordinanza ingiunge a Telecom Italia di rivelare l’identità di 3.000 utenti responsabili di fare P2P.
È la prima applicazione (sbagliata) di una direttiva. Il 9 febbraio 2007 il tribunale civile di Roma, decidendo su un ricorso presentato da un’etichetta musicale tedesca, ha emanato un provvedimento con il quale ordinava a Telecom Italia di fornire l’identità di circa 3.000 utenti accusati di essere coinvolti in attività di condivisione illecita di opere protette dal diritto d’autore. Analoghi procedimenti sarebbero in corso nei confronti di altri operatori che, se si dovesse consolidare l’orientamento del tribunale di Roma, saranno costretti a rivelare l’identità degli intestatari dei contratti Adsl dai quali sarebbero partite le connessioni incriminate.
Il provvedimento giudiziario ha suscitato forti polemiche, soprattutto a proposito della violazione della riservatezza individuale compiuta per tutelare interessi di parte e non collettivi. In altri termini, mentre un ordine come quello del tribunale di Roma sarebbe più che accettabile in una indagine penale per reati gravi, lo è molto meno quando la controversia è di tipo civile, cioè legata alla tutela di interessi di parte. Ma se è così, come si spiega la decisione del tribunale?
Innanzitutto va chiarito che questa ordinanza è stata emanata in fase di reclamo, la “richiesta urgente” dell’etichetta musicale era stata rigettata, per poi essere accolta nella fase successiva. Siamo di fronte, infatti, alla prima applicazione dell’art. 156 bis della legge sul diritto d’autore, previsto dal recepimento della direttiva comunitaria 2004/48 sulla protezione della proprietà intellettuale. La direttiva in questione consente agli Stati membri di garantire ai titolari dei diritti di proprietà intellettuale leve giudiziarie ancora più vessatorie e aggressive di quelle messe a disposizione dalla legge italiana.
Come se non bastasse, è stata peggiorata nel passaggio di recepimento (la trasformazione della direttiva in legge dello Stato) in modo da consentire ai tribunali di emettere provvedimenti sulla base di semplici indizi e non di prove concrete. In sede di recepimento, infatti, da più parti si denunciò il vero e proprio gioco di parole della traduzione italiana dell’art. 6 della direttiva, che fissa le condizioni alle quali il giudice – come nel caso commentato – può concedere un provvedimento di urgenza in caso di violazioni. L’articolo in questione è intitolato nel testo portoghese “prova”, nel testo spagnolo “pruebas”, nel testo francese “preuves”, nel testo tedesco “beweise”, e nel testo italiano “elementi di prova”. Ma il legislatore italiano ha fatto finta di niente e ha inserito nella legge sul diritto d’autore il significato sbagliato “seri elementi”. Ecco come è stato possibile ottenere provvedimenti di urgenza senza dover fornire “troppe spiegazioni”, è noto che gli indizi sono molto meno di una “prova”.
Un altro gioco di parole contenuto nella legge italiana ha consentito all’etichetta di rivolgersi direttamente all’internet provider, invece che ai diretti (presunti) responsabili degli illeciti. La direttiva comunitaria, infatti, introduce la figura dell’“intermediario” nella commissione degli illeciti, senza però definirlo in modo chiaro. Come fece notare Alcei a suo tempo, già a livello comunitario – e poi nella legge di recepimento – “mancava un limite espresso al significato attribuibile al termine “intermediario”. Lasciando il testo così com’è, si può arrivare a considerare responsabile di un illecito anche un corriere espresso perché può trasportare merce contraffatta. E dunque un Isp perché tramite la sua rete qualche utente commette degli illeciti. Sarebbe stato necessario – come peraltro si accenna nella direttiva – specificare che la norma si applica solo a chi volontariamente e consapevolmente mette a disposizione servizi internet per fini illeciti”.
Al di là delle – pur gravi – distorsioni introdotte nella martoriata legge sul diritto d’autore, il pericolo nascosto in questo orientamento del tribunale di Roma è quello della responsabilità oggettiva degli Isp e dell’abolizione dell’art. 17 del DLGV 70/2003 che vieta i controlli preventivi sul comportamento degli utenti. Francamente, è difficile pensare che l’etichetta musicale tedesca e le major in generale abbiano realmente intenzione di far causa ai singoli utenti quando la minaccia per i loro interessi è, dal loro miope punto di vista, l’Isp che consente di fare P2P; e dunque cercano di eliminare gli ostacoli normativi che impediscono di prendersela direttamente con l’operatore.
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